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È morto Frank Gehry, addio all’archistar del Guggenheim di Bilbao

di Redazione Espresso Italia
06/12/2025
È morto Frank Gehry, addio all’archistar del Guggenheim di Bilbao

Frank O. Gehry, considerato uno dei più rivoluzionari architetti del secondo Novecento e tra i massimi interpreti del decostruttivismo, è morto oggi all’età di 96 anni nella sua abitazione di Santa Monica, in California, in seguito a una breve malattia respiratoria. La notizia è stata confermata dal suo staff al ‘New York Times’, chiudendo un capitolo fondamentale della storia dell’architettura contemporanea. Gehry, nato a Toronto il 28 febbraio 1929 come Frank Owen Goldberg e naturalizzato statunitense, lascia un’eredità che va oltre la forma costruita, incrociando innovazione tecnologica, creatività artistica e un’idea radicale di architettura come esperienza emotiva e culturale.

Nel corso della sua lunga carriera Gehry ha firmato alcune delle opere più iconiche dell’architettura mondiale. Tra i suoi progetti più celebri figurano il Guggenheim Museum di Bilbao (1997), considerato uno dei massimi capolavori dell’epoca contemporanea, e l’Experience Music Project di Seattle (2000). A essi si aggiungono la Walt Disney Concert Hall di Los Angeles (2003), il Frederick R. Weisman Art and Teaching Museum a Minneapolis (1993), il Center for the Visual Arts a Toledo (1993), l’American Center di Parigi (1994), la sede della Nationale-Nederlanden a Praga, nota come “Casa danzante” o “Ginger & Fred” (1996), il New World Center di Miami Beach (2010), il Lou Ruvo Center for Brain Health di Las Vegas (2010), la Beekman Tower di New York (2011), il Biomuseo di Panama (2014), la Guggenheim Abu Dhabi (2017) e il Dwight D. Eisenhower Memorial a Washington (2020). Tra i numerosi riconoscimenti, il Pritzker Prize nel 1989 e il Leone d’Oro alla carriera della Biennale Architettura di Venezia nel 2008.

La sua ricerca teorica e formale ha trovato compimento in un percorso che ha ridefinito il linguaggio dell’architettura a partire dalla scomposizione dell’edificio in volumi indipendenti, riassemblati in modo apparentemente illogico, ma capaci di raccontare dinamiche spaziali del tutto nuove. L’uso di materiali inconsueti – lamiera ondulata, compensato grezzo, rete metallica, pannelli industriali – è diventato una cifra distintiva, così come il ricorso a software avanzati, mutuati dall’industria aeronautica, che negli anni Novanta gli hanno permesso di modellare superfici libere e complesse, anticipando la rivoluzione digitale nel progetto architettonico.

La formazione di Gehry inizia alla University of Southern California e prosegue alla Harvard University, dove si avvicina ai temi dell’urbanistica. Dopo le esperienze nello studio di Victor Gruen e l’apertura del suo atelier a Los Angeles nel 1962, intraprende un percorso autonomo che negli anni Ottanta rivoluziona persino la casa unifamiliare, trasformata in un laboratorio di sperimentazione materica e spaziale. L’abitazione privata di Santa Monica, realizzata tra il 1977 e il 1978, rappresenta uno dei punti di svolta: un intervento radicale su una modesta casa esistente, avvolta da una pelle di materiali grezzi e scomposti, destinato a far discutere e a rilanciare Gehry come figura di rottura nella scena architettonica internazionale.
La sua produzione di quegli anni comprende progetti come il Cabrillo Marine Museum di San Pedro (1979), la Loyola Law School (1981) e il California Aerospace Museum (1982) a Los Angeles, oltre al Museum of Art di Santa Monica (1988). Il percorso prosegue in modo ininterrotto negli anni successivi, con una serie di opere che consolidano la sua vocazione a un’architettura scultorea e dinamica: dalla sede della Vitra International a Birsfelden, in Svizzera (1994), alla struttura amministrativa del Team Disney ad Anaheim (1995), fino alle forme ardito del Dancing House di Praga (1996), dove due torri si intrecciano come in una coreografia.
Il punto di massima visibilità arriva con il Guggenheim Museum di Bilbao, inaugurato nel 1997. L’edificio, definito da molti critici come una delle architetture più influenti degli ultimi cinquant’anni, ha trasformato una città industriale in declino in un centro culturale internazionale, generando quel fenomeno mediatico ed economico conosciuto come “Bilbao effect”. Le sue forme fluide, rivestite di titanio, hanno ispirato una generazione di architetti e un intero filone di progettazione urbana fondato sull’idea che un’opera iconica possa innescare la rinascita di un territorio.

Anche l

a Walt Disney Concert Hall di Los Angeles, completata nel 2003 dopo un iter progettuale durato oltre un decennio, è considerata una delle sue opere simbolo: un involucro d’acciaio dalle linee morbide e avvolgenti che racchiude un interno dalle qualità acustiche e spaziali uniche. Per Gehry, quell’edificio rappresentava un ritorno alle origini, essendo situato a pochi chilometri dall’appartamento in cui aveva vissuto da adolescente.

Accanto ai grandi musei e ai complessi culturali, Gehry ha continuato a sviluppare progetti residenziali, spazi pubblici, sculture monumentali e installazioni. L’attenzione al contesto, la capacità di giocare con la percezione e una sensibilità quasi pittorica nel modellare la luce definiscono un approccio che ha spesso diviso la critica: per alcuni troppo spettacolare, per altri espressione di una libertà creativa che l’architettura sembrava aver smarrito dagli anni Sessanta.

Il rapporto con l’Europa è stato costante. In Italia, Gehry ha progettato il Venice Gateway, il terminal nautico che collegherà l’aeroporto Marco Polo al centro storico, concepito come una grande infrastruttura capace di dialogare con la natura acquatica della laguna. Una retrospettiva fondamentale del suo lavoro, Frank O. Gehry dal 1997, è stata ospitata dalla Triennale di Milano nel 2009.

Negli ultimi anni l’architetto aveva continuato a lavorare a pieno ritmo, firmando il progetto della Pierre Boulez Hall a Berlino (2017) e la torre della Luma Foundation ad Arles (2021), un edificio dalle geometrie frastagliate che richiama le rocce calcaree delle Alpilles. Era inoltre impegnato in nuovi progetti per il gruppo LVMH, tra cui un grande flagship store di Louis Vuitton a Beverly Hills e un edificio multifunzionale a Parigi, oltre a una nuova sala da concerto per la Colburn School di Los Angeles.

Gehry ha sempre negato di essere un “archistar”, etichetta applicata spesso ai progettisti più mediatici. “Si entra in architettura per rendere il mondo un posto migliore”, ripeteva. “L’ego viene dopo, con la stampa e tutto il resto. All’inizio è tutto molto innocente”. Una dichiarazione che restituisce la dimensione più profonda del suo lavoro: un’architettura pensata non come gesto narcisista ma come spazio capace di accogliere, sorprendere e coinvolgere il pubblico. (di Paolo Martini)

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