Visi chini sui manuali, tazze di caffè strette tra le mani, sguardi sfuggenti. Al Collegio d’Europa di Bruges – nell’edificio dedicato a Paul-Henri Spaak, al 9 di Dijver Straat – è giornata di esami. Ma la normalità è una recita difficile da mettere in scena: da 72 ore il campus più prestigioso della formazione europea è diventato un microcosmo assediato da cronisti, telecamere, curiosi. E gli eurocrati del futuro – custodi di una tradizione che pretende discrezione – appaiono spaesati dalle dimissioni di Federica Mogherini.
Alla porta principale, uno studente danese, seguendo un protocollo ormai condiviso, abbozza un sorriso educato: “Speriamo soltanto che si risolva tutto nel migliore dei modi”. Poi chiude l’ombrello e scompare dietro il portone, oltre le finestre gotiche appannate dalla pioggia.
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Poco distante, all’ingresso dell’Accademia diplomatica europea di Spanjaardstraat finita al centro della bufera, la foto ufficiale della rettrice sembra osservare in silenzio la scena. Nelle chat degli studenti – che per frequentare il Collegio versano rette fino a 28 mila euro l’anno, spesso coperte dai Paesi d’origine – si rincorrono messaggi e screenshot, ma la consegna resta una: non parlare con la stampa.
“Sappiamo che vi aspettate risposte da noi, ma non ne sappiamo più di ciò che leggete sui giornali. Cerchiamo solo di concentrarci sugli esami”, si giustifica un alunno belga, quasi scusandosi. Un suo compagno però, l’italo-svedese Axel, rompe la consegna: “Fino a pochi giorni fa tutto procedeva normalmente. Eravamo immersi nello studio, nulla lasciava presagire ciò che sarebbe accaduto. Ora l’atmosfera è cambiata”. Ci tiene a puntualizzare: “E’ importante che fuori capiscano che noi studenti non abbiamo alcun legame con l’Accademia diplomatica. La vicenda è difficile da decifrare dall’esterno ed è proprio per questo che preferisco rispondere: il silenzio alimenta l’idea di un luogo opaco, mentre il nostro percorso è trasparente”.
Il suo ritratto dell’ex Alta rappresentante Ue è positivo. “In questi mesi l’abbiamo incontrata spesso, anche in occasioni informali. Partecipava alle riunioni, parlava con noi, era presente per tutti gli studenti. In altre università un contatto così diretto con la rettrice è impensabile”. Proprio la carriera di Mogherini lo ha ispirato a imboccare la via diplomatica: “Nella mia lettera di motivazione ho scritto che seguivo il suo lavoro sulle relazioni Ue-Cina – confida -. Non c’è un culto della personalità, siamo qui per studiare. Ma sì, la sua presenza ha contato”.
Chi dal Collegio di Bruges o dal polo di Natolin ci è già passato e ora ha raggiunto il traguardo della ‘bolla Ue’ non nasconde l’inquietudine, temendo che gli schizzi di fango attecchiscano a lungo. “Già prima ci chiamavano Collegio-mafia perché la rete degli ex è fortissima a Bruxelles, ma ora si torna a sussurrare ‘Italian job, the usual'”, racconta Matteo, preoccupato per un cliché duro a morire e per “un danno reputazionale serio, paradossalmente più per il Collegio che per il Servizio europeo per l’azione esterna”.
Se l’indagine resta un tabù, un tema invece circola con sorprendente leggerezza: il toto-nome di chi raccoglierà il testimone di Mogherini. Uno studente fiammingo, ridendo, confessa: “La mia più grande paura? Che arrivi Charles Michel”.
Un olandese punta invece sul nome venerato tra questi corridoi: “Magari Margrethe Vestager”. Ma la sensazione condivisa porta altrove: dopo una nomina politica, il ritorno a un vertice accademico.
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